I dervisci danzanti (o meglio i mevlevî)

I dervisci danzanti (o meglio i mevlevî)
La confraternita dei dervisci danzanti o più precisamente Mevlevîyye è fondata nel XIII secolo da Jalâl al-Dîn Rûmî (m. 1273) e soprattutto dal figlio Sultân Veled (m. 1312). Questa organizzazione mistica si fonda su alcuni riti che vanno dal patto d'obbedienza con il proprio maestro (sheykh) alla ripetizione incessante (dhikr) del nome di Dio (Allâh), dal ritiro spirituale di 1001 giorni in una minuscola cella alla famosa danza sufi del samâ‘ (semâ‘, nella dizione turca).
Di tutti questi rituali, quello più conosciuto e che ha caratterizzato maggiormente la confraternita Mevlevîyye, è senza dubbio il semâ‘ la cui radice araba (Sîn-mîm-‘ayn) indica il senso profondo dell'ascolto che conduce il mevlevî a librare tutta la persona e in particolar modo a vibrare al proferire di una Parola o al suono melodico di uno strumento musicale. Questa pratica, considerata anche un concerto o un oratorio spirituale, consiste all'epoca di Mawlânâ e, soprattutto, nelle epoche successive, in una pratica della danza come manifestazione dell'ascolto profondo di Parola e musica. La rappresentazione del semâ‘, anche chiamato muqâbala, cioè celebrazione del "confronto" (perché i dervisci sono gli uni di fronte agli altri) praticata dall'epoca di Rûmî, si codifica poco a poco, fino a raggiungere la struttura completa nel XVII secolo, quando Idrîs, un compositore mevlevî, vi aggiunge un'elegia (nât) per il Profeta Muhammad.
Nella sua forma completa, il semâ‘, consiste, dopo un'introduzione di testi coranici, in tre processioni solenni all'interno della sala denominata samâ‘khânâ, durante le quali i dervisci indossano il loro caratteristico mantello nero. Questa prima parte è designata con il titolo di Devr-i Veled, cioè la processione di Sultân Veled, perché la tradizione attribuisce l'introduzione di questi tre giri nella sala, al figlio di Rûmî, Sultân Veled. Dopo questi tre primi giri a passo lento e solenne, i dervisci si fermano ciascuno al proprio posto designato, si spogliano del proprio mantello nero e, uno dopo l'altro, iniziano a volteggiare su loro stessi, nel luogo che è indicato loro dal derviscio incaricato del buon svolgimento della cerimonia. I mevlevî praticano queste rotazioni in quattro cicli, nell'ultimo dei quali i dervisci ruotano attorno al maestro che, a sua volta, volteggia al centro di tutti. Alla fine dell'ultimo ciclo, i dervisci ritornano al loro posto indicato da un tappeto di pelle di montone, e dopo ulteriori preghiere e dopo l'invocazione di Dio ‘Hu', lasciano la sala. Si ritirano quindi in un luogo appartato e silenzioso per protrarre la loro meditazione. Quando esiste, meditano in silenzio nel cimitero adiacente alla sala del semâ‘.
Con la rinascita a partire dagli anni '50 delle confraternite sufi, è il semâ‘ l'unica pratica che viene restaurata e conservata da coloro che si considerano come gli eredi di questa tradizione. Non va, infatti, dimenticato, che tutte le confraternite sufi (tarikat) sono state soppresse nel 1925 dalla Grande Assemblea della Repubblica di Turchia, di recente fondazione (1923).
I dervisci realizzano in un certo senso ciò che San Tommaso d'Aquino diceva a proposito del corpo e dell'anima. Tommaso sosteneva, nel XIII secolo – alla stessa epoca di Rûmî – che il corpo è nell'anima e non tanto l'anima nel corpo¹. Ora, i dervisci con la loro danza estatica insegnano che il corpo vive del flusso creatore di cui vive l'anima. Il primato dello spirituale sul corporeo diventa palese nel fatto che se l'anima gioisce dell'ascolto della Parola divina e dell'energia contenuta nell'universo, il corpo danzante è l'immagine della spiritualizzazione del corpo.

Alberto F. Ambrosio op

 

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