La forma del dolore o del “kijo”

La forma del dolore o del “kijo”

La forma del dolore o del "kijō"
di Laura Imai Messina 

 

Ci si svela sempre. Lo fa per noi la capigliatura arruffata, la linea a volte netta sotto agli occhi, il sopracciglio che s'arcua e si distende, il labbro superiore che s'arriccia, l'occhio che s'accende e poi si spegne quasi fosse animato da interruttore e da corrente, l'acqua si fa spazio tra le ciglia, le narici che si divaricano forte per inspirare più aria, più vita.

Il dolore ha una forma, esattamente come la possiede una bottiglia di uroncha, il tavolo in soggiorno, una confezione di formaggio, un catalogo d'arte. E come questi oggetti, tutti in fila e sull'attenti, anche la forma del dolore può mutare. S'adatta come l'acqua alla forma che l'accoglie. Ne acquista il volume e il peso.
È, nel caso del dolore, anche una questione di cultura. Perchè vi sono popoli per cui esso va dimostrato, i capelli vanno strappati, le vesti lacerate, la gola straziata dalle urla, gli occhi imbevuti di lacrime sincere.
E poi c'è il Giappone che il dolore non lo rifugge ma lo contiene.

In giapponese si dice che "più qualcuno si mostra forte, maggiore è la compassione che merita".
Perchè chi si mostra forte di fronte a un grande dolore non è insensibile agli eventi ma sta soffrendo profondamente solo che, per non straziare chi sta vivendo il medesimo dramma, sta trattenendo la sua disperazione.
È il concetto del kijō 気丈: il ki che ha dentro lo spirito, l'indole, l'animo, il sentimento e il jō che è la lunghezza delle cose e della vita e insieme anche la forza, la solidità espresse in una parola come ganjō 頑丈o che, nell'aggettivo jōbu-na 丈夫な, indica la resistenza, la robustezza di qualcosa o di qualcuno.

Il concetto del kijō 気丈esprime il mostrarsi forti, il non cedere mai completamente alla disperazione. I giapponesi sono portati a non mostrare i propri sentimenti non certo per una mancanza di emozione ma perchè la cultura insegna a mettere davanti a sè l'altro, a non far prevaricare il proprio dolore su quello altrui. Perchè in una situazione di disperazione collettiva il dolore di uno deve essere comunque rispettoso del dolore di tutti gli altri.

Così è stato nel marzo 2011, in un Giappone ferito e straziato, dal quale arrivavano immagini che stupivano gli stranieri che, per l'occasione, ripetevano la parola "compostezza". Era il kijō: la sofferenza che era e resta enorme ma che i giapponesi non mostreranno mai in modo clamoroso.
Tra quelle migliaia di sopravvissuti c'era chi aveva perso una madre, un padre, un figlio, un fratello o una sorella, il cane o il gatto, chi la propria casa, chi gli amici più cari, chi aveva visto sfumare i sogni di una vita, il proprio lavoro. Il dolore di uno vale tanto quello degli altri. Non c'è chi piange più forte, chi raccoglie maggiore cordoglio. Tutti si sostengono gli uni con gli altri e cercano di andare avanti.

Ho sempre pensato che il dolore, le lacrime siano cosa delicatissima. Come un dito infilato in un carillon. Ci vuole poco per fermare la musica e la danza della ballerina col tutù che volteggia sempre più lentamente al centro della scatoletta. Perchè quando tu, solo tu piangi per qualcosa che è accaduto a te, a te sola e l'altro nell'ascoltarti piange, persino più forte, con singhiozzi e parole strascicate, allora ti fermi.

La com-passione si fa furto. Le lacrime non sono più tue. Non riescono più a uscire e ti trovi paradossalmente a dover consolare l'altro. Il dolore che era cosa tua diventa altrui e lo spazio di espressione è ormai preso.

Penso poi che è curioso che in questo abbinamento di kanji, di ki e di jō – che viene dopo altri due in ordine di scelta sul dizionario e sul software di word – , ci siano parti di due delle espressioni più comuni in questa lingua.
E' il ki di genki 元気, che significa "stai bene, come stai?" coniugato ad ogni persona ( l'io, il tu, il lui e il lei, il noi, il voi e il loro) e il jō che è anche di daijōbu 大丈夫, parola che si ripete nel quotidiano come un mantra "va tutto bene? va tutto bene! va tutto bene, vedrai".

Sì, andrà sempre tutto bene.

                                                                                                           

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