Relazione sulla mancanza di qualsiasi pressione o coercizione nell’opera di Carl Rogers “Terapia di consultazione”.

In bocca al lupoPoi mentre riflettevo su quanto avevo letto nel libro o era scaturito dai tirocini individuali svolti alla scuola di counseling, mi è balzato agli occhi il legame fra alcune riflessioni che sto facendo in questo periodo e quello che in questo momento è, per me, il più importante fra i quattro aspetti fondamentali del rapporto terapeutico del counseling rogersiano: l'assenza di qualsiasi pressione o coercizione (pag. 84-86) in questo tipo di relazione di aiuto. in tale modo viene messo in primo piano il soggetto che, qualora riesca a raggiungere un livello di insight¹ sufficiente per capire il rapporto con il reale, potrà adattarsi alla situazione e fronteggiarla con successo.
La non direzionalità, che è il mattone fondamentale del counseling rogersiano, non ha come unico assunto quello di lasciar esprimere liberamente al cliente i suoi sentimenti senza inibirlo, ma ha anche quello di non interpretare quanto da lui espresso, in quanto l'interpretazione del conduttore bloccherebbe la possibilità di comprendere autonomamente le connessioni nel proprio vissuto da parte del cliente e fare, quindi, chiarezza mediante l'insight¹.

Il primo pensiero che ho avuto, pensando alla non direzionalità di questo approccio, è il parallelo con le tecniche di respiro che pratico da molti anni (Innerbreathing). Proprio in questi giorni ho scritto un articolo sul tocco fisico all'interno di una seduta di respiro, in cui sottolineo:

[…] "Un altro pericolo è quello dell'ansia da prestazione dell'accompagnatore che, a volte, non riesce ad accettare che il "lavoro" venga svolto dal respiro e non capisce l'importanza del guidare la seduta con accortezza (non a caso lo chiamo accompagnatore). Queste persone, non padroneggiando le tecniche di respiro, possono sentire la necessità di fare qualcosa, di sentirsi utili e trovano che toccare, parlare o altro, possa servire allo scopo ovvero riempire quel vuoto di presenza che avvertono. Nella maggior parte dei casi, quello che si può verificare è il contrario di quanto desiderato, ovvero il blocco del flusso respiratorio o, come minimo, un'intrusione ingiustificata nello spazio dell'accompagnato". […] (leggi tutto)

In effetti mi accorgo che, molto spesso, la persona che offre il consulto, sia che si tratti della relazione di aiuto, della seduta di respiro o di altre tipologie di sostegno, incappa nel proprio bisogno di centralità. Si attiva un meccanismo per cui si sente una forte spinta a "fare qualcosa", dare il proprio contributo attivo e, così, potersi sentire importanti o, forse meglio, capaci. Capaci di ottenere un risultato all'interno del consulto che appaghi il proprio narcisismo, il bisogno di sentirsi "salvatore" o "crocerossina", e tenga lontana l'idea di non essere all'altezza della situazione. I vecchi fantasmi sepolti dentro di noi iniziano a rodere le nostre convinzioni ed a spingerci verso il feticcio del risultato e del fare, dimenticando l'importanza dell'accogliere.
Un'altra spinta a tale comportamento può essere anche la difficoltà di reggere la sofferenza altrui e, di conseguenza, la nostra che gli fa eco, rendendo difficile attendere il momento giusto per il nostro intervento, senza invece agire per semplice reazione emotiva.
A questo punto la cosa più importante è diventata che il nostro consulto abbia successo, mentre dovrebbe essere che il nostro cliente abbia successo, perchè, come dice Hellinger, è importante ridare il loro posto a persone e situazioni in una classifica di priorità². Non bisogna mai dimenticare che le nostre reazioni inquinano il rapporto con il cliente e la nostra capacità di aiuto.

Nell'ambito del respiro ho sottolineato che il tentativo di ingerenza maldestro dell'accompagnatore porta spesso ad ottenere un risultato opposto a quello sperato, ovvero si verifica il blocco del flusso respiratorio e, quindi, della sua attività all'interno della sfera emozionale del cliente.
Nel counseling rogersiano viene chiarito in termini esaustivi il bisogno di avere "autocontrollo da parte del counselor, ovvero non cedere alla tentazione di spiegare al paziente il funzionamento dei suoi schemi, ma portarlo all'insight da solo (pag. 29). Le nostre interpretazioni provocano resistenze nella persona, perchè non sono le sue e vengono percepite come qualcosa di diverso dalla propria visione, e invece di risultare un ausilio si trasformano in un impedimento.

Invece nell'aiutare il soggetto a vedere da solo, accettando che possa prendere una strada diversa da quella che noi pensiamo possa essere quella giusta, possono verificarsi quei processi di insight che portano poi alla voglia di fare, di trasportare quella nuova comprensione nella vita di tutti i giorni.
E il fare che si mette in moto ed i simboli che possono accompagnarlo (come piccoli gesti, particolari scelte, ecc.) hanno un valore immenso per la persona che li mette in atto.

Riconosciuta l'importanza della non direzionalità nel counseling e trovati i legami con le tecniche di respiro, il salto successivo è stato vedere gli stessi legami nel rapporto di coppia. Anche in questo caso ci si trova spesso a dialogare con l'idea di dover indirizzare la visione dell'altro, di dover portare il problema sul binario della soluzione scelta da noi invece di accogliere l'altro. In questo caso la cosa più importante non è, come nella relazione di aiuto, il successo dell'altro, ma il successo della relazione, che coinvolge entrambi i partners.

A quel punto mi è venuta in mente un'altra cosa che mi ha toccato molto e che un po' esula dall'argomento della relazione: mi era già capitato di rifletterci in merito, di parlarne, ma stavolta è stato qualcosa che è andato più in profondità.

Posso proiettare questo stesso meccanismo dentro di me?
Quando analizzo i miei problemi, le mie paure, i fallimenti, come mi comporto verso me stesso? Sono un critico risoluto, cerco di darmi degli ordini, mi dico "devo", cercando di spingere i miei comportamenti verso direzioni differenti da quelle verso le quali sento di andare, oppure cerco di avvicinarmi al lato oscuro, rimosso, tenero di me stesso con comprensione, con amore? Mi prendo cura delle mie debolezze, cercando di amare quelli che giudico "aspetti negativi"?
Questa non è una riflessione sul testo o un insegnamento o un consiglio. È qualcosa che si è affacciato alla mia coscienza in modo forte e che voglio condividere con voi, perchè magari potrebbe far risuonare qualche cosa anche dentro qualcuno di voi.
Amare se stessi, anche negli aspetti meno grandi e belli, è quello che difficilmente facciamo e che sento mi manca profondamente. Tutti sono bravi ad amare gli aspetti piacevoli degli altri e, magari di sè, ma se non riesco ad amare gli aspetti rimossi, brutti, negativi, se non ci riesco io, chi potrà farlo?
E se anche qualcuno lo facesse, come potrò accettare la sua comprensione se non riesco a trovarla in me?

È una riflessione aperta nel mio cuore. Non è una vera conclusione a questo pezzo. Spero solo che quello che ho scritto possa trovare una sponda in qualcuno di voi per un altro passo in questo cammino.

 

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Antonio Franco | Breath Trainer & Counselor
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